Traveling back in time with the people of southern Ethiopia tribes : ETHIOPIA

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Travel review ETHIOPIA ETHIOPIA
Traveling back in time with the people of southern Ethiopia tribes

Addis Ababa, Langano, Awasa, Yabelo, El Sod, Konso, Afar Kay, Jinka, Dimeka, Turmi, Arba Minch, Omorate

Dimeka-donna Hamer
Dimeka-donna Hamer
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Traveling back in time with the people of southern Ethiopia tribes

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An incredible adventure in a place between the primordial tribes of the Omo Valley in Southern Ethiopia. Departure from Rome Fiumicino airport for flight Instambul Turkish in Turkey. Next Airline Flight of the same from Instambul to Addis Ababa where we arrived after midnight. Voyage with five companions one of them met at the airport of Rome and others Instanbul.

 

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Arrivo all'aereoporto di Adis Abeba intorno alle 00.00, acquisto del visto e trasferimento in microbus all'Hotel "MN" dove pernottiamo. Il mattino seguente dopo la colazione partiamo per il Tour con due Land Cruiser e relativi autisti. Prima sosta al campo di monoliti di Tiya poi al Lago Ziway dove si osservano numerosi uccelli tra cui ibis e marabù. Nelle acque nuotano i bambini. Proseguiamo per il Lago Langano, uno dei tanti della Rift Valley, dove prendiamo alloggio al Wendy Lodge in una caratteristica capanna. Con una guida passeggiamo nella foresta ripariale dove vivono babbuini, uccelli e scimmie colobus che saltano da un albero a l'altro. Raggiungiamo poi la riva dove incontriamo bambini. La cena è nel caratteristico ristorante del Lodge sotto un grande gazebo arricchito da elementi della tradizione etiope. Io e l'amico di Napoli incontrato all'aereoporto di Fiumicino dormiamo nella nostra capanna ai margini della foresta, non c'è energia elettrica e gli unici rumori sono quelli della natura. Tra l'altro mentre siamo comodamente sdraiati vediamo transitare nei pressi dell'alloggio due facoceri.
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Dal Lago Langano a Yabelo

Stanotte ha piovuto, dopo colazione partiamo per ubn lungo trasferimento di 400 km circa verso sud. Passiamo per Shashemele, la capitale dei Rastafariani che negli anni '30 si trasferirono qui dalla Giamaica su concessione del Negus che loro identificavano nel Messia. Ci fermiamo al mercato del pesce di Awasa sulle sponde dell'omonimo lago. Ci sono una serie di barchette allineate e i pescatori preparano le loro reti mentre in acqua sguaszzano i pellicani. Nei pressi è in costruzione un viale di "sanpietrini" e numerosi operai di ambo i sessi li stanno minuziosamente incastrando uno con l'altro. Proseguendo ci fermiamo un paio di volte lungo la strada per fotografare nuclei di capanne i cui terreni circostanti vengono solcati da rudimentali aratri di legno trainati da cavalli come quelli che si vedono sui bassorilievi dell'antico Egitto. Ci fermiamo anche a Totu Fella per vedere delle strane steli lunghe e sottili. Più che il sito archeologico è interessante la strada sterrata che dobbiamo percorrere per raggiungerlo in quanto sfiora caratteristici villaggi. In serata arriviamo nei pressi di Yabelo dove alloggiamo nell'omonimo Residence, una struttura simile ad un Motel americano con le stanze tutte allineate che si affacciano su un cortile centrale. Il Ristorante è frequentato anche da locali. Dopo cena ci ritiriamo per il pernotto.
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Dopo colazione prendiamo la strada a sud che ci porta ad El Sod. Siamo in terra Borana, non tutti però indossano i variopinti vestiti che contraddistinguono questa tribù. Sono in molti a vestire con magliette e pantaloncini di seconda mano, spesso rotti e sempre sporchi. L'interesse di El Sod sta nel suo vulcano detto "Casa del Sale" nel cui cratere giace un limaccioso e lugubre laghetto nero dove da secoli si estrae un sale ricco di iodio. Parcheggiamo ai bordi del cratere e scendiamo la parete di 250 metri fino al lago. Sull'irto sentiero è un continuo saliscendi di uomini e muli caricati di un paio di sacchi di sale. Sulle rive del laghetto vediamo due ragazzi che si immergono nella densa acqua scura per estrarre la preziosa merce. La risalita del cratere è durissima e a metà strada preferisco assoldare un locale affinchè per 100 bir (davvero poco) mi faccia salire sul suo mulo. Non è facile rimanere in groppa a questo esile ma potente animale che sollecitato dalle percosse del suo padrone si inerpica sul sentiero pietroso. Non di rado sfioriamo il precipizio, ma sono troppo stanco e concentrato sulla presa alla corda che cinge il collo del mulo per percepire il rischio di cadervi. Raggiunta la cima e i compagni ci spostiamo di qualche km per vedere i "pozzi che cantano". In pratica sono grossi pozzi scavati per circa 30 metri utilizzati per approvvigionare d'acqua le mandrie. Siamo nella stagione delle piccole piogge e non c'è questa necessità ma alcuni ragazzi ci danno una dimostrazione di come l'acqua venga portata in superficie attraverso il passamano, lavoro lungo e duro che si fa cantando. Possiamo solo immaginare quella che è l'atmosfera e il lavoro nei giorni di siccità in cui questi pozzi lavorano a pieno ritmo. Rientrando in Hotel a Yabelo sostiamo per fotografare un gruppo di dromedari che si nutrono in un campo dove tra l'altro una femmina allatta il suo piccolo. Quando arriviamo nel Motel inizia a piovere con insistenza e vista la giornata uggiosa ci corichiamo in camera. Dopo il riposino andiamo nello sconquassato centro di Yabelo dove navighiamo in un internet point dalla lenta connessione. La sera ceniamo nel Motel con injera e zighinì, un piatto tipico etiope costituito da una larga e soffice crepe di un frumento chiamato tef su cui è posto un piccantissimo spezzatino al pomodoro, davvero uno schifo!! Al termine di una giornata piovosa e fresca (ho dovuto mettere il giubbotto) andiamo a dormire.
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Konso

Ieri sera ho osato troppo e lo zighinì ha fatto i suoi danni. La notte mi sono rigirato continuamente nel letto, sento le labbra gonfie e mi brucia l'occhio destro. A colazione mi limito al te che stranamente è molto buono e aromatizzato con chiodi di garofano. Nonostante questo durante il trasferimento a Konso comincio a sentirmi sempre più debole e mi prende disappetenza. Passando per la fatiscente cittadina di Konso andiamo a visitare un vicino villaggio dell'omonima etnia che si trova ubicato su un colle. Il villaggio è circondato da mura di pietra all'interno del quale vi sono ulteriori divisioni in settori formate da steccati di rami intrecciati. In questi recinti si trovano varie capanne circolari con tetto conico di paglia e pareti di listelli di legno. L'interno delle capanne è scarno e buio, si entra per un'angusta fessura. Nel villaggio è uno spiazzo per le cerimonie con al centro l'"albero delle generazioni" e ai lati le rudimentali statuette di legno appena abbozzate degli eroi locali qui sepolti. Vi è anche una grossa capanna priva di pareti dove gli uomini si riuniscono per decidere delle cose comuni. Visitiamo pure la scuola dove i bambini studiano in aule scarsamente illuminate da qualche raggio di sole che filtra dalle strette finestre. I più fortunati seguono le lezioni nel giardino, sotto un grosso albero. All'uscita della Scuola il villaggio si riempie di bambini festosi in divisa. Come in gran parte dell'Africa, sono le donne a svolgere le mansioni pesanti, le vediamo camminare con le spalle stracariche, accudire i bambini, cucinare davanti alla loro capanna con la pentola posta a bollire direttamente su una fiamma. Gli uomini in genere passano il loro tempo a bere e ubriacarsi con la birra locale che tracannano dall'incavo di una zucca essiccata. Ci spostiamo al vicino villaggio di Gesergio dove una strana formazione rocciosa ricorda a grandi linee i pinnacoli del Bryce Canyon americano. Raggiunto il Lodge vado immediatamente nel bungalow per sdraiarmi. Sono debolissimo e accerto con il termometro più di 38 gradi di temperatura. Resto tutto il giorno e fino alla mattina successiva a letto riempiendomi di Tachipirina e digiunando.
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Key Afar e Jinka

La febbre è passata e dopo la colazione al ristorante del Lodge visitiamo nel centro di Konso il mercato che però è ancora parzialmente in allestimento. In questa parte del Mondo i mercati hanno il loro momento topico nella tarda mattinata quando scendono dai villaggi circostanti le varie tribù per l'appuntamento settimanale in cui espongono reciprocamente i prodotti della terra e dell'artigianato per la vendita o il baratto.Iniziamo il lungo trasferimento fino a Jinka. Le strade principali, anche quelle sterrate, sono ampie e e ben pressate, non vi sono buche e spesso incontriamo cantieri intenti a migliorarle. Ci fermiamo a Key Afar dove si svolge uno dei più importanti mercati della Bassa Valle dell'Omo. Il grande prato dove vengono esposti i prodotti è affollato, i membri di varie tribù sono venuti fin qui percorrendo a piedi anche 30 chilometri , per farlo sono partiti a piedi di prima mattinata anche se non manca qualche fortunato che ha trovato un passaggio sul cassone di un autocarro. Tutti indossano i loro colorati abiti tribali e sfoggiano particolari acconciature che li contraddistinguono. E' uno spettacolo: piume, perline, lustrini, bracciali vengono orgogliosamente mostrati. Le ragazze hanno capigliature fantasiose, le ciocche di capelli impastate nell'ocra e nella resina, a volte lucidate con urina. Gli uomini sono armati di coltelli e maceti, le donne portano un Kalashnicov a tracolla. Per farsi fotografare pretendono 2 Birr, iniziano l'approccio rimproverandoti altezzosamente per averle inquadrate ma, ricevuto l'obolo, ti salutano con un sorriso. Anche i bambini conoscono il bisness e allungando una mano ti invitano insistentemente a fotografarli. Qualcuno più astuto ti prende per mano e non ti molla finchè non gli regali 1 Birr. Nel cortile di quello che secondo gli standard locali dovrebbe essere un bar ma che da noi non ci faresti vivere neanche un animale, un gruppo di donne sta sorseggiando birra da improbabili bicchieri di zucca e latta, veniamo invitati ad unirci a loro ma rifiutiamo garbatamente. Un gruppo di ragazzi provenienti da un vicino villaggio ci invita ad una loro cerimonia di iniziazione per il giorno dopo a cui pagando potremmo assistere. Dopo l'appagante immersione al mercato pranziamo in una bettola non molto diversa dal bar suddetto e proseguiamo per Jinka. Arrivati in città prendiamo possesso delle camere in un Hotel. La sistemazione è centrale ma le camere sono anguste, manca la luce elettrica e non c'è acqua calda. La città è un'accozzaglia di case fatiscenti e capanne di lamiera, la piazza centrale è un largo spiazzo sterrato e polveroso con al centro una squallida fontana circolare in cemento armato, ovviamente priva d'acqua. Lungo le strade c'è un mercato permanente frequentato da gente sporca vestita di poveri stracci. In Etiopia gli abiti tribali hanno il loro fascino ma quando la gente cerca di occidentalizzarsi scimmiottando gli occidentali sembrano quello che probabilmente sono davvero, una massa di diseredati. Troviamo anche un matto che inveisce contro di noi e l'Italia, lo allontaniamo con l'ausilio di un poliziotto reso poco autoritario dalla divisa polverosa. Entriamo nell'unico internet point che presenta una lentissima connessione di fatto inutilizzabile. Tornati nella nostra piccola e brutta camera attendiamo la cena che consumiamo in quello che dovrebbe essere il miglior ristorante della zona ma che in realtà è un luogo squallido come il resto della città. Zuppa di verdura a parte il resto è immangiabile. Rientriamo in Hotel per il pernotto.
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Murzi, Banna e il Salto del Toro

Come al solito ci alziamo presto, carichiamo i bagagli sui fuoristrada e ci spostiamo nel ristorante per la colazione. Non sappiamo esattamente come si svilupperà la giornata perchè non riusciamo ad avere conferma della cerimonia a cui siamo stati invitati ieri a Key Afar. Andiamo al Mago National Park, celebre più che per gli scarsi animali difficili da avvistare, per la presenza di una delle più famose tribù africane: i Murzi. In effetti il Parco è costituito da colline ricoperte da fitto bush per cui è evidente che riusciremo a vedere solo gli animali che attraversano la strada sterrata. In pratica lungo il cammino vediamo un cudù, qualche babbuino, un gruppetto di gazzelle di Thompson, una gazzella di Grant saltellante e numerosi dik dik. Attraversato il ponte sul fiume Mago si entra in terra Murzi. Questa tribù è celebre in tutto il mondo per i piattelli labiali portati dalle donne. Tutto il loro sistema di vita è rimasto pressochè come ai tempi in cui furono scoperti dagli esploratori europei, unica eccezione qualche maglietta regalata dai turisti di passaggio e la pressante richiesta di birr per farsi fotografare. Colpiscono i loro vestiti e le capigliature elaborate con oggetti tradizionali. Chi non indossa provvisoriamente il disco mostra la scioccante mutilazione del labbro inferiore completamente discosto dal resto del volto. Fotografiamo le donne davanti alle loro anguste capanne a igloo distribuite irregolarmente nel bush. Facciamo sosta in due villaggi poi, riattraversato il ponte sul Mago, torniamo nel Parco dove sorprendentemente avvistiamo una leonessa, un evento straordinario in Etiopia. Ci fermiamo al quartier generale dei Rangers per pranzare all'ombra di un gazebo con i panini preparati dal Ristorante di Jinka. Mentre stiamo per tornare in città giunge, quando avevamo perso ogni speranza, la telefonata che ci conferma la cerimonia tribale a cui tanto tenevamo. Passando per Jinka ci trasferiamo rapidamente a Key Afar dove ci aspetta la guida locale. Da qui percorriamo una pista secondaria appena tracciata sulle colline. Transitiamo da un villaggio che presumiamo essere la nostra meta ma invece tiriamo diritto ancora per diversi chilometri su una pista in sali scendi difficile da identificare e che bruscamente si interrompe davanti all'alta sponda di un fiume completamente asciutto. Da qui proseguiamo a piedi lungo un sentiero che si inoltra tra le colline ricoperte di sterpaglie. Dopo aver guadato un ruscello dove le donne raccolgono l'acqua cominciamo ad udire in lontananza i canti che provengono da una cima. Saliamo incontrando sul nostro cammino sempre più persone agghindate con abiti tribali finchè non raggiungiamo il villaggio. La celebrazione coinvolge tutti gli indigeni. Siamo tra i Banna, le donne hanno una capigliatura a caschetto formato da treccine degradanti cosparse di ocra rossa, alcune hanno una mezza zucca essiccata in capo e un kalashnikov a tracolla. In dosso hanno strisce di pelle sul quale sono poste numerose piccole conchiglie del Mar Rosso e mostrano con disinvoltura i loro seni prosperosi. Gli uomini portano generalmente una fascia di perline multicolori sulla fronte, alcuni hanno i capelli in parte cosparsi di argilla colorata su cui vengono applicate tessere da mosaico. I Banna sono molto belli, i caratteri somatici lineari e proporzionati, la pelle di un nero bronzeo e tutti presentano vistose cicatrici sul corpo a mo di squame. Queste ferite volontarie si chiamano scarificazioni e sono ottenute incidendo la pelle per provocarvi un infezione controllata, sulla lacerazione viene posta della cenere affinchè la cicatrice diventi permanente. Uomini e donne attingono da grosse brocche di terracotta una sostanza alcolica, con mestole di legno riempiono recipienti fatti con la zucca svuotata. C'è anche un marmittone di latta al fuoco che cuoce una bevanda scura indecifrabile. Andiamo a porgere il nostro riverente saluto al capo villaggio, un omino alto e smilzo che stranamente veste con una maglietta di cotone a righe orizzontali che non ha niente a che fare con la tradizione Banna e che ci consente di fotografare liberamente. Il capo vorrebbe suggellare l'accordo offrendoci il misterioso liquido che cuoce nel marmittone ma riluttanti rifiutiamo cortesemente. Le donne cantano saltando e marciando sulla collina, gli uomini bevono insieme sotto una bassa capanna priva di pareti e pavimentata di foglie. Le donne si mettono più volte in cerchio e a turno una di loro implora uno degli uomini di frustarla. L'uomo prende un lungo torchio e la percuote violentemente provocandogli profonde escoriazioni, la donna ringrazia con un salto in avanti poi va da un altro uomo per essere nuovamente percossa. Qualcuna affronta il "piacevole" supplizio suonando una trombetta e nessuna lascia trasparire smorfie di dolore. Giovani e vecchie subiscono felicemente lo stesso trattamento, ne sono invece escluse le lattanti che assistono alla scena appartate con i loro bambini. Il truce spettacolo ci emoziona, ci sentiamo come dentro un documentario, sbalzati improvvisamente quasi nella preistoria. Assistiamo passivamente a questa celebrazione secondo i nostri canoni incomprensibile ma affascinante. Canti e frustate si alternano, in molti sono ormai in preda all'alcol ma tutti sono intenti ad osservare l'eroe del giorno, il giovane Maza, poco più di un bambino. Maza è sotto un albero abbracciato alla madre e attorniato da numerose persone. Compie riti ancestrali come far cadere dei cerchi metallici in un cuneo di legno poi lo cospargono di latte e lo conducono sullo spiazzo dove sono stati allineati una dozzina di tori che scalpitano. Gli animali sono irrequieti, qualcuno cerca di disallinearsi ma viene ricomposto strattonandolo per le corna, un'altro scappa dal recinto. Due vitelli fanno da sgabello a Maza che prende la rincorsa e al calar del sole cammina sul vello delle bestie per tre volte compiendo l'arcaico salto con cui di diritto, nonostante la giovane età, entra nel mondo degli adulti. Lasciamo Shaba, questo il nome del villaggio, ripercorrendo a ritroso il sentiero con incerto passo tra le tenebre illuminate dalla foca luce delle nostre torce a pila. Il firmamento sopra di noi è nitido, favorito dall'assenza totale di inquinamento atmosferico. Si sentono solo i rumori della natura. Raggiunti i fuoristrada rientriamo a Jinka per la cena al Ristorante ed il pernotto in Hotel. Siamo stanchi ma appagati per essere stati testimoni di un evento che ricorderemo per sempre. Pensiamo a Shaba e immaginiamo che ora la festa continui in un orgia collettiva dove l'istinto primordiale prevale su ogni forma di ritegno e condizionamento.
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Dimeka

Dopo una giornata come quella di ieri, così emozionante e irripetibile, siamo consapevoli che il viaggio non potrà riservarci cose più eclatanti. Ci svegliamo di buon ora, consumiamo la prima colazione al solito ristorantino poi lasciamo Jinka in direzione Turmi. Avremmo potuto fermarci al mercato settimanale di Jinka ma preferiamo sostare lungo la strada a quello di Dimeka. Qui visitiamo prima la parte riservata alla vendita del bestiame, a dire il vero deludente, poi, al centro del paese, andiamo al mercato vero e proprio. E' una carrellata di abiti tradizionali delle tribù Hamer e Banna, tra l'altro molto simili. Gli Hamer si distinguono per la pelle più scura, di un nero intenso. Le donne sposate hanno un collare su cui emerge un simbolo fallico. Non sorprende vederli indossare anche a bambine di 12 anni perchè qui i matrimoni sono combinati dalle famiglie e ci si sposa in tenera età. In queste tribù dove vige la poligamia è solo però la moglie principale ad avere il diritto di indossare il collare. Quasi tutte invece mostrano i loro seni e anche il resto del corpo è vagamente coperto da triangoli di pelle decorati con perline e conchiglie del Mar Rosso. Certamente ho visto più seni oggi di quanti mi possa capitare di vederne nell'arco di una vita. Gli uomini sono meno tradizionalisti, seguitano a spargersi i capelli di terra ponendovi a volte una piuma di uccello. Alcuni si radono parte della capigliatura ponendo in fronte una fascetta colorata ma non disdegnano una maglietta di seconda mano. Sulla strada principale presso il mercato ci sono centinaia di Hamer accovacciati sotto gli alberi per ripararsi dal sole. In molti però vagano nella calura del mercato dove sopra tappetini improvvisati di iuta o tela si vendono i prodotti della campagna. Nei confronti dei turisti c'è la solita aggressività in attesa di ricevere 2 Birr per una foto. Tra una passeggiata e l'altra al mercato pranziamo con dei panini, preparati dal ristorantino di Jinka, nell'unico Hotel del luogo, un ambiente fatiscente e sporco dove troviamo un po d'ombra. Ovunque ci spostiamo gli Hamer si presentano con la loro mercanzia che richiede per l'acquisto estenuanti trattative. Ripartiti da Dimeka arriviamo a Turmi nel tardo pomeriggio. Qui prendiamo posto in un Eco-Lodge, l'Evengadi, in un bungalow ampio e pulito. Facciamo una brevissima passeggiata nei dintorni e siamo subito attorniati da un gruppo di ragazzini Hamer in cerca di Birr in cambio di foto o di un inutile oggetto d'artigianato. Rientrati ceniamo, il pasto è buono e abbondante, il migliore del viaggio. Rincasiamo presto nel bungalow perchè domani ci aspetta una giornata faticosa.
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Omorate

Questa mattina ci svegliamo prima del solito, ci attende una difficile tappa su una strada sterrata sconnessa. Dopo la colazione al Lodge affrontiamo un percorso accidentato che conduce in una zona desertica e priva di vegetazione. Man mano che ci dirigiamo a sud l'ambiente si fa più inospitale e il caldo diventa insopportabile. Ogni tanto spunta lungo la strada qualche indigeno segno che la zona è comunque frequentata. Dopo una settantina di chilometri nel nulla arriviamo a Omorate, un accozzaglia di edifici di fango erosi dalla calura che qui osano definire cittadina. L'unica cosa moderna è il posto di Polizia dove è obbligatorio registrarsi e dove ci viene assegnato un militare armato che sale su uno dei nostri fuoristrada. Nel centro di Omorate, ma non è altro che uno spiazzo polveroso, si trova l'hotel turistico composto da un cortile dove si affacciano bassi edifici che per aspetto sembrano molto più simili ad un pollaio che ad alloggi. In attesa del permesso per proseguire da parte delle autorità andiamo a vedere la sponda del fiume Omo dal letto ampio e fangoso. Dall'alto notiamo alcuni pescatori con le loro canoe ricavate da tronchi d'albero dal fusto irregolare. Con un gruppo di bambini locali improvvisiamo una breve partita di calcio sul bordo del fiume utilizzando il loro pallone di stracci arrotolati. Per la cronaca vincono gli etiopi per 3 a 0 visto che per noi controllare questa improbabile palla che non rimbalza e si srotola man mano che la usi è impossibile. Difficile anche intercettare le porte demarcate da un paio di ciabatte di plastica. Abbiamo comunque regalato un diversivo per questi ragazzi eccitati dalla vittoria, abituati generalmente a giocare facendo rotolare cerchioni di biciclette e impiegati in duri lavori fin da piccoli. Finalmente partiamo su una pista appena tracciata che si fa breccia in un deserto di pietre e sabbia dove il sole batte forte. A un certo punto la strada si interrompe di fronte all'argine di una larga zona alluvionale, oggi però completamente asciutta. Un fuoristrada locale che viaggia in senso inverso si è arenato e lo aiutiamo a risalire sulla pista trainandolo con una corda. Scendiamo dai nostri fuoristrada per permettere ai due bravi autisti di superare agevolmente questo difficile tratto sabbioso mentre noi proseguiamo a piedi. Risaliti ci inoltriamo in una terra di nessuno interrotta dopo qualche chilometro da un insediamento di basse capanne a cupola ricoperte di lamiere e foglie dove vivono i Dasanech con i loro armenti. Veniamo praticamente assaliti da questa gente che chiede insistentemente di essere fotografata per un paio di Birr. Hanno i volti cotti dal sole, le donne mostrano i loro seni, a volte prosperosi, a volte decadenti. Lasciato l'insediamento c'è una sbarra che demarca il confine con il Kenya che superiamo (vedi itinerario relativo).
Rientrati un paio d'ore dopo dal Kenya percorriamo a ritroso la pista dell'andata. A Omorate, dove lasciamo il militare, sostiamo nel fatiscente e orribile hotel per bere una Coca Cola tra nuvoli di mosche. L'unica bella ragazza vista in "città", tra l'altro anche ben vestita, è seduta di fronte ai miseri alloggi, probabilmente una prostituta in attesa dei rari clienti che passano da queste parti. Proseguiamo per Turmi dove arriviamo stanchi al Lodge. Dopo una buona cena ci ritiriamo in camera.
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I KARO E IL MERCATO DI TURMI

Il caldo opprimente di ieri ci ha molto stancato ma la cena decente dopo giorni e il sonno di stanotte ci rimette in sesto per affrontare una nuova giornata alla scoperta di questa zona. Saliamo sui tornanti che ci conducono su un altopiano coperto di bush. La pista è sconnessa e dopo un paio d'ore tra il nulla ci fermiamo nei pressi del villaggio di Kolcho dove vive la piccola tribù dei Karo. L'abitato è preceduto dall'unico edificio in cemento che ospita la scuola primaria frequentata da pochi allievi di diverse età. Il maestro ci spiega che i genitori preferiscono far lavorare i propri figli anzichè farli studiare. Le aule sono desolanti, vecchi banchi vuoti e pochi svogliati allievi ci accolgono. Quelli che dovrebbero essere in classe preferiscono venirci incontro con i volti dipinti chiedendoci qualche Bir. Il villaggio di capanne poco più in là è ubicato in splendida posizione a due passi dalle alte sponde del fiume Omo che qui scorre maestoso a formare un ampio meandro. I Karo amano pitturarsi il volto con colori naturali ricavati dalla terra, mettersi alti copricapi di piume in testa e conficcarsi un chiodo sotto il labbro inferiore. La cosa che più mi affascina del luogo è però è il fiume che scorre sotto il villaggio. Un Etiope "urbanizzato" provenientre dalla città è giunto fin qui per spiegare ai notabili della tribù come compilare le ricevute da rilasciare ai turisti in visita. La spiegazione apparentemente elementare risulta incomprensibile per questa gente che ha scarsa dimestichezza con denaro e ricevute. Un passo in avanti comunque verso la modernità se confrontato con l'atteggiamento di un paio di giorni fa delle ragazze del villaggio dove abbiamo assistito al "Salto del Toro" così estasiate nel vedersi riprodotte nel monitor della mia piccola macchina fotografica. Rientriamo nel nostro Lodge di Turmi per un frugale pranzo poi visitiamo il mercato settimanale meno affollato dei precedenti ma frequentato dagli Hamer dei dintorni con la loro mercanzia. Finalmente è possibile telefonare perchè il Centralino chiuso nel fine settimana ha riaperto. Bisogna prenotare la telefonata ed aspettare a lungo il proprio turno. Lo stabile dell'Ufficio Telefonico che è l'unico contatto di questa vasta area con il resto del Mondo, è un edificio di paglia e fango privo di pavimento dall'interno scarsamente illuminato dal sole. Verso sera ci rechiamo in un vicino villaggio per assistere ad uno spettacolo di danze di scarsa qualità appositamente allestito per i turisti. Un gruppo di giovani di entrambi i sessi danzano svogliatamente vicino ad un fuoco. Dopo aver assistito al "Salto del Toro" nella sua massima genuinità giudichiamo questo spettacolo assolutamente ridicolo, un esca per strappare qualche euro ai turisti. Delusi rientriamo al Lodge per la cena e per l'ultimo pernottamento a Turmi.
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ARBORE, DORZE E ARBA MINCH

Dopo tre notti consecutive lasciamo lì'Evengadi Lodge di Turmi con un lungo trasferimento verso la città di Arba Minch. Lungo la strada facciamo una breve sosta ad Arbore, villaggio non molto lontano dal Lago Stefania (che non vediamo) dove vivono l'omonima tribù e un numero elevatissimo di zanzare. Per timore di contrarre la malaria ci fermiamo giusto il tempo per scattare qualche fotografia poi proseguiamo sulla strada per Konso in parte gia percorsa all'andata. A Konso sostiamo per sorseggiare una bibita fresca in un bar poi, dopo aver macinato altri chilometri facciamo un ulteriore sosta per consumare il pranzo che ci hanno preparato quelli del Lodge di Turmi. Finalmente ritroviamo dopo giorni il segnale telefonico e questo ci fà sentire un po meno isolati. Baipassiamo Arba Minch per salire sulle montagne circostanti dove visitiamo il mercato di Chencha. Qui vivono i Dorze che pur non vestendo abiti tradizionali hanno mantenuto le particolari tecniche costruttive delle loro abitazioni. Il mercato si sviluppa su un terreno leggermente in pendenza, l'ambiente circostante presenta caratteristiche di alta montagna che non sfigurerebbe in Svizzera. Il mercato nel suo insieme ricorda un villaggio andino. I bambini accolgono i turisti con un ballo in cui muovono ritmicamente le natiche e rispetto ai loro coetanei di altre tribù non insistono per essere fotografati in cambio di denaro. Più a valle nel villaggio di Dorze (si chiama come la tribù) siamo ricevuti da un giovane rasta che ci mostra le caratteristiche capanne a forma di testa di elefante dove vivono insieme famiglia e animali. Rispetto alle abitazioni di altre tribù non c'è il palo centrale di sostegno perchè l'alta costruzione è sostenuta da un solido scheletro di canne di bambù ricoperte da foglie di enset. L'enset è una pianta simile al banano ma non fà frutti, i Dorze la utilizzano non solo come materiale da costruzione ma anche per la panificazione. La polpa della corteccia viene fatta fermentare all'interno di buche ricoperte di foglie della stessa pianta poi utilizzata come impasto per farne una specie di piadina che assaggiamo spalmata di miele. Ci vengono poi mostrati la cardatura del cotone e i loro tradizionali tressuti. I Dorze sono la tribù più organizzata tra quelle visitate, non assillano i turisti per cui hanno preparato visite guidate e gestiscono un piccolo Lodge di capanne tradizionali dotate però di confort occidentali.
Verso Arba Minch assistiamo ad una delle più classiche scene africane: centinaia di persone affollano la strada principale, sono gli uomini che rientrano con migliaia di capi di bestiame, donne e bambini che carichi all'inverosimile di fascine di legno e taniche di plastica portano a casa gli elementi essenziali per la sussistenza. Ai lati della strada gli studenti della locale Università si rilassano. I bambini e le loro mamme camminano per chilometri fino al pozzo più vicino per rifornirzi d'acqua.. Là dove il pozzo non c'è si preleva dai torrenti un'acqua rossiccia mista a terra che và filtrata. Un compito duro che gli uomini evitano perchè qui la principale forza lavoro è quella femminile. Le società tribali generalmente assegnano ai maschi il ruolo di cacciatori e guerrieri. Povere donne d'Africa così lontane dal nostro stereotipo occidentale, umiliate, frustate a sangue e con un marito poligamo che le costringe a lavori faticosi. Ma le donne africane di questa situazione non sembrano preoccuparsene perchè probabilmente non conoscono un altro Mondo.
Scendendo delle montagne tra un tornante e l'altro vediamo degli scorci dei due laghi che bagnano Arba Minch, l'Abaya e il Chamo. In città alloggiamo in quello che forse è il miglior Lodge, lo Swayne's. Ci vengono assegnati dei bungalow dove, dopo la cena al ristorante del complesso, ci ritiriamo per il pernotto.
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ARBA MINCH E DINTORNI

Nonostante lo standard piuttosto elevato del Lodge non sono mancati i soliti problemi che affliggono anche i turisti in questo Paese: cibo, acqua ed energia. Infatti nonostante la comoda sistemazione ed un arredamento raffinato è mancata per un lungo periodo l'energia elettrica, l'acqua calda era erogata ad intermittenza e i piatti serviti dal ristorante non erano molto invitanti. Dopo colazione partiamo per il Nechisar National Park dove avvistiamo pochi animali rispetto ad altri grandi Parchi africani ma l'esperienza è comunque interessante. La notte ha piovuto incessantemente e buona parte del Nechisar è sommersa dalle acque, in particolare la pista da seguire si è trasformata in un torrente su cui le nostre vetture annaspando nel fango riescono a farsi strada. La scarsa fauna è compensata dal verde paesaggio e dagli scorci panoramici sui laghi sottostanti, Abaya e Chamo. Il percorso si sviluppa sul così detto "Ponte di Dio", una stretta striscia di terra che separa i due laghi scoperti dalla celebre spedizione guidata da Bottego. L'esploratore italiano impose all'Abaya il nome di Margherita dedicandolo alla Regina d'Italia. Il lago presenta una colorazione rosata dovuta a particolari sedimenti ed è il secondo più grande del Paese dopo il Tana che è ubicato a nord. Tra una panoramica e l'altra sui laghi avvistiamo un branco di zebre che avviciniamo con una breve passeggiata nella prateria. Sulla strada del rientro incontriamo qualche simpatico babbuino, alcuni dik dik e una gazzella di Grant. Pranziamo al nostro Lodge di Arba Minch poi ripartiamo per le rive del Lago Chamo dove saliamo su una barchetta a motore. Dopo circa mezz'ora di navigazione ci avviciniamo ad un ansa ricca di animali sulle cui rive regnano incontrastati decine di coccodrilli. Li osserviamo, sono immobili come statue, alcuni hanno la bocca spalancata ma sembrano pietrificati. Marabù e Pellicani gli passano indisturbati e senza timore a fianco. Ogni tanto un coccodrillo si degna di muoversi tuffandosi nell'acqua in prossimità della nostra barca che nel frattempo si è avvicinata alla riva per vedere meglio questi grossi animali. Siamo circondati, coccodrilli da un lato e grossi ippopotami dall'altro, le due specie sembrano ignorarsi e anche noi fortunatamente non destiamo per loro alcun interesse. Riprendiamo il largo dove numerosissimi pellicani galleggiano nell'acqua, di tanto in tanto qualcuno si invola, da solo o in compagnia, e volteggia su di noi. Inaspettatamente arriva fulminea un aquila pescatrice che a due passi dalla nostra imbarcazione agguanta al volo un pesce con le proprie zampe e se lo porta via volteggiando su di noi come in un documentario naturalistico. Mentre lasciamo questo spettacolo estemporaneo e torniamo all'imbarcadero da cui siamo partiti la natura ci offre un altro splendido quadro: due ippopotami si scambiano effusioni amorose accostando le loro grosse fauci spalancate. Soddisfatti della minicrociera ormeggiamo a riva poi, dopo la sosta ad un bar per una bibita e all'internet point torniamo al Lodge per cena e pernotto.
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I GURAGE E ADIS ABEBA

Stamani lungo trasferimento per Adis Abeba. Fortunatamente, dopo i primi 80 chilometri di brutta strada che alterna asfalto pieno di buche a sterrato, il percorso diventa accettabile. Man mano che saliamo verso nord le capanne diminuiscono lasciando il posto a case di fango e paglia ma anche ad abitazioni in muratura. Il ristorante in cui pranziamo è più che dignitoso e non sfigurerebbe in Europa. Siamo tornati sull'altopiano etiopico dove non c'è il caldo opprimente che abbiamo trovato a sud. Lungo la strada per la Capitale facciamo una breve sosta in un piccolo villaggio di capanne circolari abitato dalla tribù Gurage, gente cordiale che ci mostra orgogliosamente i loro alloggi senza chiedere niente in cambio. Le capanne sono pulite e ordinate, in terra sono poste delle stuoie e gli animali vivono separati dagli uomini. Arrivati ad Adis Abeba ci sistemiamo all'Hotel MN dove eravamo già stati all'andata. I miei compagni di viaggio si recano a cena nel miglio ristorante della città, il "Castelli", di proprietà italiana e ubicato nell'ex "Casa del Fascio". Io resto in Hotel perchè sento brontolare il mio stomaco e non voglio aggravare la situazione. Ne approfitto anche per dormire visto che da domani mattina inizia un vero "tour de force".
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ADIS ABEBA

Oggi sto meglio e questo mi consente, dopo colazione, di effettuare un veloce tour di Adis Abeba con i miei compagni di viaggio. Consegnamo le chiavi delle camere ma ne conserviamo una in comune per lasciare i bagagli e fare una doccia stasera prima di raggiungere l'Aeroporto. Abbiamo salutato ieri i nostri drivers e oggi l'Agenzia etiope ci ha messo a disposizione un Bus con cui saliamo sulla collina di Entoto che domina la città. Qui si trova la Chiesa di Entoto Maryam dove l'Imperatore Menelik fu incoronato e che ci limitiamo a vedere dall'esterno. Riscendiamo in città passando davanti ai piccoli Parchi cittadini che separano i due principali viali del centro. Lungo questo percorso si trovano le cose più interessanti di Adis Abeba come l'Africa Hall sede dell'Unione Africana, il Monumento Yekatit che ricorda una strage per rappresaglia ad opera del Vicere d'Italia Graziani, il Monumento al Leone di Giuda che il Duce trasferì a Roma come trofeo di guerra dopo la conquista dell'Abissinia, il Monumento al Derg che ricorda il triste periodo della dittatura comunista oltre a Musei e Chiese.
Visitiamo il piccolo Museo Nazionale distribuito su più piani attratti dalla presenza dei resti fossilizzati della celeberrima Lucy, l'antichissimo progenitore della nostra specie. Visto che ci siamo diamo un fugace sguardo anche al resto dell'allestimento su cui spicca il grosso trono in legno intagliato dell'Imperatore Hailè Selassiè. Andiamo poi a visitare la Cattedrale della Santissima Trinità che custodisce le tombe di Selassiè e consorte. Le Chiese etiopi sono sobrie e silenziose, come nelle moschee è obbligo entrare scalzi. Ci rechiamo poi alla Cattedrale di San Giorgio fatta erigere dall'Imperatore Menelik per commemorare la vittoria abissina sugli italiani ad Adua. L'edificio è circolare e all'interno per qualche birr una guida ci spiega il significato degli affreschi realizzati dal più noto artista del Paese, un certo Afewerk Tekle. La dedica della Chiesa a San Giorgio non è casuale, il Santo sconfisse il drago come Menelik e il suo esercito ebbe la meglio su quegli italiani desiderosi di espandere la loro colonia in Corno d'Africa. Correva l'anno 1896 ed era la prima volta che una potenza coloniale veniva sconfitta da un esercito africano. Del resto l'Etiopia è stato tra i Paesi di questo Continente quello che meno ha risentito il processo di colonizzazione europeo. La sua lunga storia e cultura lo ha sempre coeso contro gli invasori rendendosi fieramente indipendente ad eccezione della breve parentesi fascista. Non a caso molti africani riconoscono, attraverso il movimento Rasta, l'Etiopia come Terra Promessa, non a caso Adis Abeba è la Capitale morale dell'intero Continente essendo sede dell'Unione Africana. Tutto ciò nonostante la città si presenti in gran parte come un accozzaglia di baracche disordinate come il grande Merkato in cui non osiamo neanche entrare. All'escursione non ha preso parte il mio compagno di stanza che ha preferito stare con la giovane etiope che da qualche anno ha adottato a distanza. Il pomeriggio siamo invitati nell'alloggio di questa ragazza che raggiungiamo in taxi. Qui possiamo toccare con mano quella che è la realtà dell'Etiopia odierna, la giovane vive in affitto in una piccola stanza priva di servizi igenici, pavimenti e rivestimenti. L'ambiente è talmente angusto che ci si muove con difficoltà e il letto occupa quasi l'intero spazio. Come ospiti ci viene offerto uno dei principali prodotti del Paese, il caffè, attraverso un lungo rito che prevede tostatura dei chicchi, macinazione a mano dentro un mortaio e somministrazione. Per una procedura così solenne è prevista anche l'aromatizzazione dell'ambiente con l'etan e la superficie della stanza viene cosparsa di erba. Siamo tutti graditi ospiti perchè amici del suo benefattore, grazie agli Euro che il mio compagno di viaggio gli invia mensilmente (100 o poco più) può pagarsi gli studi nell'Università della Capitale e l'affitto di questa umile dimora. Quando ci saluta scoppia in lacrime. Rientrati in Hotel facciamo una doccia, prendiamo i bagagli e raggiungiamo con il bus un ristorante etnico dove insieme alla cena a base di injera, che evito di consumare, ci viene offerto uno spettacolo di canti e danze. Raggiungiamo poi l'Aeroporto da cui dopo un paio d'ore partiamo per il rientro.
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  • antonio
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